Matteo Lucca è nato a Forlì, dove vive e lavora, nel 1980 e si è formato all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Il suo percorso è fin dall’inizio incentrato sulla scultura, passando per materiali diversi come tessuti, piombo, rame.
Nel 2016 espone per la prima volta i suoi Uomini di pane, sculture in pane cotte all’interno di stampi in terracotta, nel Parco delle Foreste Casentinesi, all’interno di un contesto naturale in cui le opere evidenziano al massimo la loro forza espressiva.
Fra le mostre principali segnaliamo le collettive Postwar, Isorropia Home Gallery, Milano; Burn It, a cura di Wilko Austerman, Dusseldorf, Monchengladbach e Krefeld; Il Profumo del Pane, evento ufficiale di Argillà2018, Faenza e la personale Gold wears down, Magazzeno Art Gallery, Ravenna.
FC Come nasce il progetto Uomini di pane e con quale obiettivo?
Il processo artistico è fatto di inciampi e combinazioni inconsapevoli nelle quali il quotidiano e il visionario si incontrano. Per quanto l’intuito possa essere guidato non si è sempre padroni e le cose nascono come una conseguenza fluida del fare e dell’incontrare.
Nel 2004 organizzai una mostra con altri artisti il cui tema centrale era il cibo. Fu allora che mi chiesi come potevo interpretarlo avvalendomi della figura umana. Pensai alla teglia in terracotta che si usa tradizionalmente per cucinare la piadina romagnola e come sarebbe stato se quella teglia fosse diventata il calco del mio viso. Al tempo fu un gioco, che riemerse dieci anni dopo. Nel frattempo mi ero avvicinato al buddismo tibetano: sono sempre stato un pessimo praticante, ma una meditazione legata all’offerta del corpo mi ha affascinato. In qualche modo ho ripercorso le immagini di quella meditazione reinterpretandola attraverso le mie radici. Da quel momento il lavoro si è costantemente arricchito e dal voler essere incentrato sull’offerta del corpo, ora racconta sempre più l’essere umano “in senso verticale”, toccando gli aspetti più elementari della sopravvivenza (il pane come alimento essenziale e basilare) fino a quelli più elevati e spirituali (il pane come corpo spirituale).
Quanto alla ceramica, storicamente è sempre stato un materiale comune alla preparazione e conservazione del cibo. Nel mio caso la terracotta è centrale in un processo creativo e simbolico: è madre, è terra, è matrice, è archetipo.
FC Il pane si ritrova spesso come espressione artistica della tradizione popolare, mentre non è un materiale frequente nella scultura contemporanea. Quanta sperimentazione hai affrontato prima di esporre la tua prima installazione?
Dall’arte moderna ad oggi si possono trovare vari artisti che hanno utilizzato il pane nella loro ricerca: da Picasso a Marc Quinn, passando per Antony Gormley a Maria Lai. Di recente ho scoperto che anche César riprodusse il suo volto in pane nel ’72: fu la figlia di un panettiere parigino a scrivermi per raccontare di quando suo padre e l’artista fecero il pane insieme.
Ad ogni modo non sono tanti i casi di artisti che utilizzano il pane nella scultura ed ognuno lo fa in modi diversi.
Prima dell’esperienza nelle foreste casentinesi del 2016 ho realizzato un paio di figure intere per altre mostre, dopo di che è stata una cosa che sentivo di dover fare, così è stato. Due o tre volte a settimana andavo da un fornaio per preparare insieme l’impasto, che poi cuocevo nel mio studio.
In realtà il mio modo di operare lascia molto spazio al caso, e anche per questo mi sento di sperimentare continuamente.
FC Sul web si trova una tua performance sulla preparazione dell’impasto. Nella pratica quotidiana come lo prepari e con quali ingredienti?
Tra i progetti di Paola Ponti, danzatrice faentina, c’è anche un lavoro nel quale interagisce con l’impasto del pane. L’estate scorsa c’è stata occasione di condividere i nostri percorsi e panificare insieme le nostre opere. L’esperienza con Paola è stata unica e mi ha fatto scoprire un senso più forte del mio percorso, tanto che vorrei coltivare questo tipo di collaborazione creativa. Solitamente per questioni pratiche mi rifornisco da un fornaio che mi prepara un comune pane montanaro, fatto salvo per le volte in cui decido che le mie opere saranno mangiate, in quel caso cerco di scegliere un pane integrale con pasta madre.
FC Quale ruolo ha la terracotta in questo lavoro?
Come il pane, la terracotta è la materia semplice, arcaica, archetipica. Il corpo in argilla è anche Golem, che si vivifica nel momento in cui il pane lo anima. Come dicevo, parte del mio lavoro è ispirato ad una meditazione buddista in cui si immagina il proprio corpo che diventa contenitore dell’offerta e offerta stessa. Sono partito dalla realizzazione del calco del mio corpo per trasformarlo, in vari passaggi, in contenitore in terracotta, risolvendo alcuni aspetti tecnici. Per questo lo stampo è diviso in varie parti distinte, che ogni volta devo assemblare e poi smontare a cottura ultimata, come a voler comporre e scomporre la propria identità tutte le volte che le si da vita.
All’inizio vedevo le strutture in terracotta come semplice mezzo di lavoro. Ora sono sempre più parte integrante dell’opera stessa, indipendentemente dal fatto che siano esposte o meno. La terracotta è per me elemento centrale, quanto il pane.
FC Quali sono le caratteristiche del forno che utilizzi e a cosa ti sei ispirato?
Dopo alcune ricerche mi son reso conto che l’unico modo per cuocere le mie figure in un pezzo unico era quello di costruirmi un forno abbastanza grande da poterle contenere. Il primo tentativo è stato quello di scavare una buca a terra e fare un letto di brace con sopra una capanna di lamiere dentro la quale si cuoceva il pane. In seguito, grazie a Oscar Dominguez (artista di origine argentina che vive e lavora a Faenza) più di una volta indispensabile per la crescita di questo lavoro, ho fatto un salto di qualità. Abbiamo studiato insieme un sistema più evoluto, ma anche estremamente spartano: si tratta di un forno a legna realizzato con bidoni, mattoni e lamiere. Mi fa pensare alle favelas e trovo qualcosa di poetico anche in questo.
FC Per la chiusura della mostra alla Galleria di Arte Sacra dei Contemporanei a Milano hai coinvolto il pubblico in una performance, invitandolo a cibarsi della propria immagine. Cosa vuoi trasmettere e come coinvolgi il tuo pubblico?
Fin dal primo esordio il pane era opera e cibo allo stesso tempo. Quando l’opera viene consumata come cibo, essa si compie nella sua profonda autenticità: ha a che fare con l’offerta del corpo, sul come essere di nutrimento per l’altro, sull’accoglienza e la condivisione. A volte i miei “pani” vengono offerti alle persone, a volte agli animali, altre alla natura. Per certi aspetti è il mio modo di praticare quella meditazione di cui accennavo prima, e ho intenzione di rendere questi momenti di fruizione sempre più frequenti.
FC Cibo e ceramica sono due linguaggi. Quali “parole” che hanno in comune?
Madre. Terra e pane sono entrambi simbolicamente legati al concetto di maternità, trasformazione, creazione.
(Tutte le foto sono di Matteo Lucca, tranne l’ultima di Matteo Perini. La modella della figura in pane femminile è Nourhan Sondok.)